Cancro dell’ ovaio: perché è così difficile trovare una cura?

Il cancro dell’ ovaio è un tumore piuttosto raro: secondo i dati dell’Associazione italiana registri tumore (AIRTUM) colpisce, nell’arco della vita, una donna su 74 (contro una su 8 nel caso del cancro della mammella), per un totale di 5.200 nuovi casi l’anno. Purtroppo risulta elevato anche il numero dei decessi: il tasso di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è pari al 38% (a fronte dell’85,5% per le donne colpite da cancro al seno).

La ricerca non è rimasta con le mani in mano

Negli ultimi anni sono state sviluppate diverse terapie innovative, tra le quali combinazioni nuove di chemioterapici, la somministrazione intraperitoneale dei farmaci anticancro e alcuni farmaci antiangiogenici. Un ulteriore grande passo avanti è stata la messa a punto di una categoria di farmaci del tutto nuova, gli inibitori di PARP, particolarmente attivi contro i tumori causati da mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2. Sono inoltre in corso sperimentazioni di immunoterapia.
Come mai, dunque, l’efficacia di queste nuove strategie è ancora limitata?

La diagnosi precoce del cancro dell’ ovaio

Il cancro dell’ ovaio è una malattia subdola. Il più delle volte si manifesta con sintomi del tutto generici (disturbi gastrointestinali, gonfiore addominale, disturbi urinari) che ritardano la diagnosi. Anche quando i sintomi agiscono come campanello d’allarme, il tumore è spesso già a uno stadio relativamente avanzato. Si calcola che meno del 20% dei tumori ovarici viene diagnosticato in fase precoce, ma quando ciò accade la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi supera il 94%.

I tradizionali test ginecologici e del sangue non bastano

I controlli ginecologici standard (esame della pelvi, Pap test) non servono per l’identificazione precoce di questo tumore.
L’ecografia transvaginale ha mostrato una qualche utilità in alcuni studi, ma identifica anch’essa tumori già avanzati, così come la misurazione del Ca-125, un marcatore tumorale presente nel sangue che potrebbe aiutare a individuare la malattia in una fase relativamente precoce, sempre che si sospetti qualcosa. Il Ca-125 è comunque un test imperfetto, che dà molti risultati falsamente positivi: per questo non è utile come screening da proporre a tutte le donne, indipendentemente dal loro livello di rischio individuale.

Ecco perché la ricerca si sta concentrando sull’identificazione di altri marcatori nel sangue che possano essere utilizzati in un eventuale screening. Al momento, però, nessuno ha ancora trovato la molecola (o il gruppo di molecole) giusta: esistono due test commerciali approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense che uniscono tra loro diversi possibili marcatori, ma nessuno dei due sembra sufficientemente affidabile da costituire un test di screening per tutte le donne.

La natura della malattia

Si sa ormai con certezza che circa un terzo dei tumori ovarici insorge in donne con mutazioni dei geni BRCA1 o BRCA2. In questi casi le cellule tumorali presentano dei difetti del meccanismo di riparazione del DNA denominato ricombinazione omologa. In un ulteriore 20% dei casi la ricombinazione omologa del DNA è difettosa per alterazioni molecolari diverse da quelle dei geni BRCA. Questi difetti nella ricombinazione omologa, presenti in oltre la metà dei casi di tumori dell’ ovaio, rendono le cellule tumorali particolarmente sensibili all’azione di alcuni farmaci come gli inibitori di PARP.

La valutazione delle mutazioni germinali dei geni BRCA, oltre ad avere un valore per la scelta della terapia, è importante anche per identificare soggetti ad alto rischio che richiedono un attento monitoraggio ed eventualmente interventi mirati a ridurre le probabilità che si sviluppi la malattia, come l’asportazione chirurgica delle ovaie o anche delle tube di Falloppio. Gli studi di anatomia patologica hanno inoltre dimostrato che il carcinoma sieroso di alto grado, che è il tumore maligno più frequente, origina in realtà dalle tube di Falloppio. Le cellule tumorali si staccano a pioggia da questa parte del sistema riproduttivo femminile e vanno a depositarsi sul peritoneo (il tessuto che riveste gli organi addominali), dando origine a metastasi locali.

Ecco perché curare il tumore dell’ ovaio è così difficile

Spesso si tratta di una malattia che «nasce» già metastatica e che rapidamente si trasmette agli organi contigui, ancor prima di dare origine a masse tumorali rilevabili con l’ecografia.
In molti casi il carcinoma dell’ ovaio risponde inizialmente alle terapie disponibili e a volte continua a rispondere anche in caso di recidiva, soprattutto se questa si presenta dopo molto tempo. Generalmente, però, diventa resistente alle terapie in caso di recidive successive. Pertanto la ricerca deve mettere a punto nuovi farmaci e nuove combinazioni di farmaci più efficaci, che siano attivi anche contro la malattia resistente ai farmaci contenti platino, che sono a tutt’oggi i più attivi disponibili.

Il patchwork genetico

Anche sul piano farmacologico il cancro ovarico costituisce una sfida per i ricercatori. I farmaci mirati, infatti, hanno bisogno di bersagli all’interno della cellula tumorale per agire in modo efficace. Tali bersagli sono costituiti da geni mutati o dalle relative proteine. Nel caso dei tumori dell’ ovaio si assiste al cosiddetto “patchwork genetico”, ovvero a una frequenza e variabilità di mutazioni tale da rendere complessa l’identificazione di un bersaglio chiave.
Diversi laboratori in tutto il mondo stanno studiando l’intero corredo genetico delle cellule con l’aiuto di potenti computer, in grado di individuare, se possibile, le alterazioni genetiche più frequenti e quelle legate alle forme più aggressive della malattia.

Per battere il tumore ovarico, quindi, serve ancora più ricerca: specialmente ora che i meccanismi alla base della malattia cominciano a essere più chiari grazie agli sforzi compiuti negli ultimi vent’anni dai laboratori di tutto il mondo.

Fonte: airc.it

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