Tumore al seno e recidive

Uno studio mette in luce il pericolo di recidive del tumore al seno e metastasi anche dopo 15 o 20 anni dal primo tumore al seno. Chi sono le pazienti più a rischio che le cellule cancerose si risveglino e cosa dovrebbero fare? Ecco le risposte dell’oncologo Giuseppe Curigliano, direttore della divisione per lo sviluppo di Nuovi farmaci e Terapie innovative dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.

Perché si parla di «rude awakening» ovvero duro risveglio?

Le cellule cancerose restano dormienti in una minoranza di donne con tumore al seno, che hanno scoperto la malattia alle sue fasi iniziali e sono state curate con successo (prima con chirurgia e poi con terapia ormonale) per cinque anni. «Lo abbiamo definito duro risveglio perché quando si verifica, magari dopo 10 o 20 anni di “sonno”, la ripresa attività delle cellule cancerose è spesso “rude”, letale rapidamente. Finora non se ne capivano i meccanismi, ma la ricerca sta facendo progressi», spiega Giuseppe Curigliano, direttore della divisione per lo sviluppo di Nuovi farmaci e Terapie innovative dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano e autore di un’analisi appena pubblicata sulla rivista scientifica Nature insieme alla collega portoghese Fatima Cardoso.

Chi guarisce e chi invece è a rischio di ricaduta ancora dopo 20 anni?

«Si possono definire guarite tutte quelle donne con una diagnosi molto precoce, con tumori piccoli senza interessamento dei linfonodi alla diagnosi, con elevata sensibilità alla terapia ormonale e un basso indice di proliferazione (ovvero le cui cellule cancerose si moltiplicano lentamente e poco). Nel caso di tumori a basso rischio, piccoli, molto sensibili alla cura con ormoni, con bassa proliferazione di cellule cancerose, la sopravvivenza delle pazienti è superiore al 95%. Il pericolo di recidive, anche a molti anni di distanza, riguarda invece le pazienti che hanno alla diagnosi una neoplasia di dimensioni più grandi, con più linfonodi già interessati dalla malattia e un alto indice di proliferazione».

Come si spiega il letargo di queste cellule?

«La nostra conoscenza della biologia delle cellule residue dormienti dopo la terapia adiuvante è molto limitata – risponde Curigliano -: ci sono più fattori da tenere in considerazione per capire perché e come alcune cellule tumorali che sopravvivono ai trattamenti anticancro si annidano in una nicchia, dove rimangono dormienti per decenni per poi improvvisamente risvegliarsi. Se uno qualsiasi di questi fattori cambia, il “letargo” viene disturbato e le cellule cancerose si destano bruscamente, iniziando lo sviluppo di malattia metastatica».

Quali controlli potrebbero aiutare le donne operate di tumore al seno?

«Tutte le donne con diagnosi di carcinoma mammario dovrebbero sottoporsi, a vita, a una mammografia annuale e a un’ecografia mammaria e dei cavi ascellari semestrale. Tutti gli ulteriori esami si richiedono per monitorare eventuali tossicità dalla terapia ormonale o in accordo a segnali clinici (dolori, alterazioni degli esami ematici, sintomi respiratori o di altro tipo) che ci indurranno ad approfondire con indagini mirate sugli organi dove segni e sintomi si manifesteranno».

Ha senso continuare la terapia ormonale oltre i 5 anni?

«Prolungare la terapia ormonale oltre i 5 anni è indicato solo in quelle pazienti con un maggiore pericolo di recidive: tumori più grandi alla diagnosi, molti linfonodi metastatici, alta proliferazione. Il “costo” da pagare è un maggiore rischio di osteoporosi e cardiovascolare, oltre a maggiori effetti collaterali quali vampate notturne e dolori articolari (che variano da soggetto a soggetto). Una terapia intermittente sembra essere gravata da minori effetti collaterali. I pro sono legati al minore rischio di recidiva locale del tumore. Ci sono poi studi che stanno valutando se estendere l’ormonoterapia prevenga o meno le metastasi, e quindi porti benefici nell’allungare la sopravvivenza delle pazienti: ma è presto per poter dare risposte in questo senso».

Stili di vita: cosa riduce davvero il pericolo di recidive?

«Quello che sappiamo è che l’obesità riduce l’efficacia della terapia ormonale, in particolare quella degli inibitori delle aromatasi – conclude Curigliano -. Una raccomandazione importante per i nostri pazienti è quindi evitare il sovrappeso e un’alimentazione che aumenta il rischio di sindrome metabolica. Diversi studi poi dimostrano chiaramente che l’esercizio fisico inteso come “mantenersi in forma” mantiene e migliora la salute muscolo-scheletrica, riduce il rischio metabolico e cardiovascolare, e indirettamente dà un impatto sulla migliore tollerabilità di alcune terapie ormonali».

Fonte: corriere.it

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