L’arte che, nelle sue varie ed articolate manifestazioni, accompagna l’uomo fin dalle sue remote origini, continua a restare un’esigenza profonda dello spirito umano. Ma cosa accomuna l’arte alla medicina? I modelli di Raffaello con sei dita ai piedi, le lezioni di anatomia di Rembrandt, Maria che sviene durante la deposizione della croce.
L’arte, nei secoli, ha raccontato in tanti modi la medicina e la malattia. Pittori di tutte le epoche, da Raffaello a Picasso, hanno raccontato malattie e interventi. Dietro queste grandi opere c’è sempre un profondo studio dell’anatomia umana, almeno dal 500 in poi, dopo i secoli bui del Medioevo che avevano cancellato tutte le scoperte precedenti, dall’Egitto all’antica Roma.
Tutto un percorso che si era sviluppato attraverso Giotto e il recupero della dimensione corporea, nel superamento della piatta dimensione bizantina, attraverso la sperimentazione di Masaccio fino a Andrea Mantegna, che dipingeva un corpo da studio di anatomia, in una composizione unica e originale, un corpo malato, sofferente, quasi che gli artisti fossero in grado come stregoni e alchimisti, di far parlare le loro opere.
Anche gli studi preparatori di Leonardo mostrano conoscenze anatomiche eccezionali: il flusso sanguigno, il battito del cuore, gli organi riproduttivi, i muscoli con il movimento e i tendini.
L’arte, anticipando la medicina, spazza via le dottrine galeniche degli elementi e degli umori, che seguva regole come quella che recitava “Si ricorda di far scaldare li scorpioni dentro un vaso di vetro a fine che si stizzino, perché si risveglia in essi la vivacità, o attività […] poi si getta sopra l’oglio caldo, ma non tanto” raccomandata nel 1677 dal medico speziale Giuseppe Donzelli.
Due fenomeni, dunque, si spalleggiavano muovendo da esigenze diverse, quello medico e quello artistico che trovava nella pittura crescente applicazione.
La Napoli del Caravaggio, quella della peste e dell’insofferenza sociale, della malattia come della rivolta, diventa frontiera tra le epoche, segna il superamento definitivo tra l’abbandono metafisico a un destino incomprensibile e l’esigenza di comprendere le ragioni fisiologiche del male. La peste costituiva un duplice banco di prova, per l’arte che doveva rappresentarla e per la medicina che doveva combatterla. Il medico, con tutta la sua impossibilità di sconfiggere il male, si collocava sempre più al centro delle speranze, ed il suo ruolo diveniva centrale nell’organizzazione cittadina, il punto di riferimento nell’attività dei lazzaretti e, contemporaneamente, un’autorità aggiunta alle tradizionali di governo, come se l’Europa moderna, in particolare le città italiane, individuassero in lui un potenziale salvatore, se non il taumaturgo in grado di risolvere il disastro in corso. Accadeva dunque che il medico da una parte, il pittore dall’altra, intorno alla peste ricavassero entrambi, ciascuna dalla propria angolazione, un ruolo sociale.
Tra tutti, Luca Giordano compì la sintesi tra le ragioni dell’arte e l’esigenza civile ricostruendo le scene di malattia e morte nel grandioso dipinto San Gennaro libera Napoli dalla peste”, oggi conservato a Palazzo Reale della città.
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